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TRACCE DI VITA E DI MEMORIE libro d'arte Edizioni dell'Ombra

Concentrare lo sguardo sulla vita, oppure su un frammento di essa, nel tentativo di offrire, alla nostra riflessione, quella sintesi che, quale un aforisma, diviene una breve massima, ovvero norma di vita, come recita il vecchio dizionario Zingarelli. Una breve massima equivale ad un segno definito dal gesto della mano o la stessa che ferma, nello scatto, la frazione (il frammento) del tempo epifanico di un’immagine.
Il tempo quale “istante o eternità”, scriveva Giorgio Zampa introducendo gli aforismi che Fausto Melotti dava alle stampe nel 1981; il tempo che “disintegra, decompone imparziale e impassibile”. È lo stesso millenario tempo che Pio Peruzzini ha incontrato attraversando il cortile di San Marcellino dell’Ateneo federiciano di Napoli, poi le sale dei Musei delle Scienze Naturali che su di esso si affacciano. Ha attraversato sale contigue, a volte scatole cinesi una nell’altra, che lo sguardo organizzato dal mirino dell’obiettivo fotografico ha trasformato in un luogo magico e, al tempo stesso misterioso. Magico perché l’occhio cede all’emozione, a quella parte del Sé non subordinato al pensiero; magico perché lo spinge a vivere in uno spazio abitato da oggetti e cose che, al primo impatto, sembrano esser frutto della fantasia di un mago.
Frontalmente, in una delle sale, sono schierati gli scheletri di uccelli; alcuni di esemplari oramai lontani dalla nostra memoria, abitanti di un lontano passato che non ha attualità. Altri, quali la grù comune e il pellicano bianco le cui immagini l’artista ha voluto raccogliere in questa plaquette, sono testimoni di una natura in rotta di collisione con l’umano (disumano) concetto di ambiente, di una terra che, piano piano, è destinata alla memoria.
Colpisce del lavoro di Pio Peruzzini la sua capacità di intercettare il sentimento, prim’ancora che l’epifania dell’immagine si compia. La sua fotografia è interessata alla dimensione etica e sembra, in questa esperienza, che rispecchi il senso di un aforisma di Fausto Melotti, dedicato alla rappresentazione del corpo umano e, in generale degli esseri viventi: “L’importante è, non che la tibia e il deltoide siano a posto, ma che quel segno susciti un pensiero”.
La grù comune è colta nel gesto di quando allunga il collo in cerca di cibo, lo stesso è per il pellicano bianco, con il becco dalle lunghe mascelle ma privo della sacca che lo fa riconoscere, entrambi fermi nell’atto della vita che la scienza conserva come patrimonio della società per il suo avvenire.
L’artista ha fermato nello scatto la perfetta costruzione anatomica dello scheletro, anche se il suo sguardo non si è fermato ad ammirare la struttura, bensì ha insistito sul gesto, su quello che Melotti chiama ‘pensiero’. Com’è stato in altre occasioni della sua più che quarantennale esperienza, sollecita lo sguardo dello spettatore, di noi che guardiamo, a prendere atto della realtà, nella prospettiva che fioriscano nuove coscienze, capaci di arginare il lento oblio che vive il nostro pianeta.

Massimo Bignardi










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