ESSERE E TEMPO NELLE FOTO DI PIO PERUZZINI
di Alfonso Di Muro
“Noi guardiamo la fotografia, il quadro appeso alla nostra parete,
come l’oggetto stesso (l’uomo, un paesaggio…) che vi è raffigurato.
Non è detto che ciò debba necessariamente accadere.”
Ludwig Wittgenstein
“La fotografia è un’evidenza spinta, caricata, che sembra caricare
non già la figura di ciò che essa ritrae (anzi è proprio il contrario),
ma la sua stessa esistenza.”
Roland Barthes
Non è, questo, il mio primo incontro con il lavoro fotografico di Pio Peruzzini. Nel 2006 ebbi l’occasione di conoscerlo, soprattutto conobbi la sua opera, cosa che costituì e costituisce una grande fortuna - conoscere un’artista dalla sua opera; è come se dicessi: l’albero si riconosce dai frutti. La ghiotta occasione mi fu fornita dalla pubblicazione di una raccolta di fotografie dal titolo molto suggestivo di “Sguardi”.
I frutti che ebbi modo di gustare in quell’occasione ancora li ricordo, il loro profumo, il loro colore, la loro forma, il loro contorno. Certi sapori si sono impressi nella memoria del mio gusto e non sono andati più via.
A distanza di tempo riassaporo la succulenza di nuovi frutti che provengono da un albero sempre straordinariamente fiorito e promettente un rac-colto abbondante e di buoni prodotti. Il raccolto, quasi una messe, a cui facciamo riferimento in questa occasione è Santi, Madonne e Sacrestie, la nuova raccolta di fotografie del Nostro che nel titolo esprime già con eloquenza il contenuto di questo suo nuovo lavoro.
Una lunghissima e affascinante serie di scatti o di pose, per meglio dire, realizzate tra il 1998 e il 2010 tra la Processione del Venerdì Santo di Procida e il Miserere di Sessa Aurunca, soffermandosi su località ricche di tradizioni popolari e culti religiosi come Avigliano, Pagani, Nola, Pisciotta, Santa Maria di Castellabbate. Maratea, Accettura, Ostuni…insom-ma tutto il Sud è qui rappresentato, quel sud tanto studiato e indagato nelle sue ragioni profonde da studiosi del calibro di Ernesto De Martino, Annabella Rossi, Diego Carpitella, Roberto De Simone.
Il richiamo antropologico mi sembra d’obbligo, osservando le foto di questa nuova raccolta di Pio Peruzzini. Forte è anche il richiamo al sacro, e non solo perché i soggetti delle foto o il titolo stesso della raccolta vi rimandano, ma è sacro, e laico al tempo stesso, lo sguardo acuto e indagatore di chi scruta il mondo dal foro della macchina fotografica. E ce lo restituisce in una visione umana e appassionata. Lo stupore è il tratto distintivo di queste foto, perché documentano ciò che veramente è stato ed è accaduto davanti al suo occhio e che continuamente risorge quando è il nostro occhio a cadere su queste foto. Sembra quasi che esse abbiano una funzione risorgente, o di resurrezione, se la parola non inquieta troppo, nel senso che richiamano continuamente le cose dalla morte, soprattutto dalla morte dell’oblio.
A primo impatto si potrebbe dire che queste foto abbiano una forte carica documentativa o una forte connotazione nel senso del reportage. Nulla di più fuorviante. I fatti, i luoghi, gli avvenimenti, i frammenti di storie, i volti, i lacerti di affreschi, gli occhi delle statue abbandonate in soffitta e non più coperte dal culto e dalla devozione, le processioni e le luminarie, le file di bancarelle e le schiere di chierici e tutti gli altri elementi ritratti testimoniano un tempo mitico, il tempo del sacro, sempre uguale a sé stesso e sempre rientrante su sé stesso, ma che forse oggi ha perso il suo aspetto primigenio. E le foto di Peruzzini mi sembra dicano più della perdita e dell’assenza che del ritrovamento o della presenza. Ciò che sento e vedo è che l’autore non è uno di quei fotografi che si agita nel mondo, consacrandosi alla cosiddetta attualità o, peggio ancora, realtà. Chi intende la fotografia in questo modo è piuttosto un agente della morte, che un appassionato dell’umano che è in noi, un agente che prima o poi a furia di regalarci immagini crude e reali disamorerà prima egli stesso e poi noialtri alla vita.
Negli scatti di Peruzzini ho notato un infinito sforzo di cogliere l’umano e di conservare la vita, in tutte le sue forme. Più che documentazioni religiose, le sue foto sono la drammatica testimonianza di un mondo che ha perso l’aspetto primigenio dell’integrità, mediante la quale l’esperienza dei riti religiosi legava gli uomini alle cose e al senso dell’Eterno. La stessa partecipazione popolare ai riti e alle feste sembra che sottostia più a esigenze esibizioniste che a reali sentimenti dell’antica consapevolezza.
Allora più che l’apologia o la dossologia del Fatto religioso attraverso i riti e le tradizioni, colgo nelle foto di Pio un’infinita nostalgia del Tempo del Sacro, una nostalgia che continuamente si interroga su cosa ci sia dietro la sopravvivenza di sé. Cosa c’è dietro ad ogni scatto fotografico? Perché tante statue dimenticate? Impolverate? Che per anni hanno suscitato fiumi di devozioni e instillato la preghiera in intere generazioni di fedeli. Una devozione capace, oggi, di rievocare ma non di ri-vivere nel volto di Cristo e dei Santi la sacralità assoluta del volto del prossimo, del diverso, dello straniero, una devozione non più capace di aiutare l’uomo a liberarsi dalla caligine dell’ovvio e della superficialità, dalla mala pianta dell’egoismo. Una devozione che non è più in grado di ricordare all’uomo moderno, che lancia sms a raffica anche durante le processioni, il dramma vissuto nel mondo da tantissimi fratelli poveri, senza renderlo nemmeno più capace di interrogarsi sul mistero del dolore.
Ritrovo in Pio quelle caratteristiche dell’umanesimo fotografico che fu dei pionieri degli inizi del Nove-cento, in Francia, che con molta umiltà si chiamarono fotografi di strada: Atget, Doiseneau, Bressaï, Cartier-Bresson; tutti successivi alla generazione di Felix Nadar e soci. Ma penso anche a maestri della fotografia contemporanea come Franco Pinna, che conquistò la fama al seguito di Ernesto De Martino nelle sue ricognizioni in Lucania e nel Salento, come Gianni Berengo Gardin, fotoreporter sommo dell’Espresso, del Time, di Stern, come il bagherese Ferdinando Scianna, che ha documentato la Sicilia e l’universo delle tradizioni religiose siciliane in tutto il mondo, come l’indimenticato e indimenticabile Ugo Mulas, fotografo ufficiale del Piccolo Teatro di Milano di Giorgio Strehler e ritrattista di artisti del calibro di Carlo Carrà, Andy Warhol, Salvatore Quasimodo, Eduardo De Filippo, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.
Concludo e riguardo d’un fiato le foto di Pio, e ripenso a una frase di Emanuel Levinas: “Il volto è rivolto a me, è questa la nudità stessa.” Dopo decenni in cui da più parti si è tentato di annullare il volto dell’Altro, la contemplazione del volto umano che traspare da tutti questi scatti non può che dare speranza.