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"Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati”.

Mario Luzi, da "Nel corpo oscuro della metamorfosi"

Rieccoci ancora di fronte alle foto di Pio Peruzzini . Or volge un anno che guardavamo i suoi Santi, rendevamo omaggio alle sue Madonne, entravamo con lui, in punta di piedi, nelle sue Sacrestie. Ci addentravamo in quell’itinerario visuale fatto di sguardi acuti e penetranti, umani, umanissimi, tutti indirizzati verso la riscoperta della sacralità di ciò che finiva di volta in volta davanti al suo obiettivo, che sarebbe a dire, il suo occhio. Il sacro che è nelle cose, e non le cose sacre, questo mi stupiva e tuttora mi stupisce. Il sacro di un’esistenza che ne ha perso completamente le tracce e che per questo è finita facile preda della profanazione del potere.
I nuovi scatti di Peruzzini hanno per oggetto gli stabilimenti della manifattura del tabacco nella piana del Sele, in quel terreno di confluenza tra Eboli, Battipaglia e Pontecagnano, là dove i corsi d’acqua del Picentino, del Tusciano e del Sele concorrono a disegnare un reticolo intricato e ordinato allo stesso tempo di captazioni e canalizzazioni idriche, che per decenni hanno sostenuto l’agricoltura della nostra fertile provincia. Una terra madre ma anticamente matrigna. Un suolo reso fertile dalla bonifica del 1926, dai lunghissimi filari di eucalyptus gunnii, nonché dalle infinite selve di pinacee che hanno divorato per decenni l’insanità dei luoghi malarici, restituendo all’uomo la benignità di un ventre fertile, come la melagrana nelle mani di Hera Argiva.
E così quel suolo fruttifero e fecondo, sacro anche nella leggendaria visitazione di Giasone e degli Argonauti, ci ha regalato frutti benefici come il grano, il carciofo e, quando le colture europee si sono arricchite delle provenienze dal Nuovo mondo, allora anche la patata, il pomodoro, il mais e il tabacco hanno trovato qui la protezione della dea Artemide. Ma si diceva dei nuovi scatti di Peruzzini che ha lungamente percorso i luoghi compresi in questa striscia di Campania, muovendosi alla riscoperta, novello archeologo, degli stabilimenti di manifattura del tabacco, oggi totalmente dismessi. Località come Cafasso, Picciola, Borgo Carillia, Centola, Fiocche che per decenni hanno visto generazioni di solerti operai accogliere e trasformare uno dei prodotti agricoli più generosi di questo lembo di terra, il tabacco appunto. Egli si è mosso fra questi luoghi con lo stesso spirito col quale Goethe si mosse fra i resti di Paestum, durante il suo Viaggio in Italia; analogamente al grande scrittore tedesco Peruzzini si è imposto di comprendere il significato dei luoghi, prima ancora che la bellezza o il fascino, prescrivendosi quasi una disciplina di tipo scientifico, proiettandosi in quello Zeitgeist, ossia nello spirito del tempo, grazie al quale le foto finiscono col documentare una relazione amichevole, quasi familiare con gli stabilimenti dismessi.
Per comprendere i luoghi e le presenze umane che vi hanno abitato e operato, Peruzzini in ogni scatto ricostruisce mentalmente, oltre che visivamente, le mansioni degli operai, i gesti, le usanze, le parlate locali, le voci, le mani di uomini e donne operose della Piana che dominavano all’epoca in cui gli stabilimenti erano in perfetta efficienza. Un vero e proprio lavoro da storico. Ma nello stesso tempo gli scatti di Pio hanno anche un valore metastorico perché evidenziano qualcosa che nei luoghi è sopravvissuto, nonostante l’abbandono e la dismissione di queste gigantesche fucine industriali. Dicevo prima qualcosa di metastorico, ma oserei dire anche di sovrannaturale, quasi come se l’occhio del fotografo riuscisse a captare il genius loci dei luoghi, dei vari tabacchifici, che li affermava come officine della volontà di riscatto, fucine del saper fare, laboratori delle buone capacità della parte più operosa di un sud sempre bistrattato.
Ma l’occhio di Peruzzini non lavora soltanto con la lente dello storico o, talvolta, col microscopio del batteriologo –visti taluni scatti come si concentrino su inquadrature eloquenti, quasi assolute, nel loro restituirci il senso totale di abbandono in cui versano ormai i luoghi, un tempo affollati di genti e di lavoro. Il suo sguardo è sempre più lungo.
Ed è proprio l’ estetica della dismissione che colpisce particolarmente di quest’ultimo lavoro di Pio. Come pure la denunzia della totale mancanza di riguardo che stiamo dimostrando per questi luoghi e per la vita che un giorno, di nemmeno tanti anni fa, li attraversava. Una totale perdita della memoria che ormai ci caratterizza tutti sembra dettare il nostro quotidiano rapporto col presente, trascurando completamente l’umanità di quei luoghi che per decenni hanno dato lavoro e sostentamento alle nostre famiglie del sud. Luoghi oggi in cui prevalgono gli arbusti di rovi, la vegetazione spontanea dei rampicanti, le decine di specie diversissime di insetti o di animali randagi di ogni sorta, esattamente come Goethe ritrovò i Templi di Paestum facendosi strada nelle lande paludose e malariche della Piana. Nell’abbandono totale in cui l’uomo aveva dimenticato questi tesori del passato. E aveva dimenticato se stesso.
Le dismissioni di questi grandi laboratori dell’ industria meridionale non hanno, però, un contraccolpo soltanto di natura estetica o poetica. Esse rappresentano, a mio giudizio, e le foto di Peruzzini lo documentano benissimo, una certa fine della modernità, quella che Pasolini chiamava il dopostoria: cioè la fine di quell’identità di un popolo che si riconosce nei valori unificanti della politica, della fedeltà al lavoro, della solidarietà sociale, nella disciplina, nel senso del dovere. Valori che proprio queste industrie manifatturiere avevano dato alle nostre terre, fornendo occupazione e formando intere generazioni di operai.
Ciò che resta sono cumuli di macerie, detriti, calcinacci e un’impronta devastante di abbandono, analoga, per certi versi, alla tragedia atomica di Fukushima. Ad un ultimo sguardo sulle foto di Peruzzini vengono in mente le parole del protagonista del romanzo La dismissione, di Ermanno Rea, che, riferendosi alla chiusura dell’Ilva di Bagnoli dice: “Noi amavamo Bagnoli, perché rappresentava mille cose, perché incarnava ai nostri occhi una naturale contro-cartolina della città. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata dal contrabbando, dall’abusivismo alcuni valori alquanto inusuali: la solidarietà, l’orgoglio di chi si guadagna la vita, il senso della legalità.”
Non è forse per questo che Peruzzini ci ha donato il suo ennesimo sguardo sulla realtà contemporanea? E sulle sue trasformazioni?

Alfonso Di Muro



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