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FREMITI, FRUSCII E VIBRAZIONI libro d'arte autoprodotto

"Ibridi & Simili" Mostra internazionale di libri d’artista e della piccola editoria
a cura di
Antonio Baglivo e Vito Pinto
BIBLIOTECA PROVINCIALE di SALERNO
Dal 15 maggio al 15 giugno 2015

La prima foto di questo libro è un omaggio dovuto al maestro Antonio Baglivo. Se questa piccola opera prende vita, è per la spinta a creare che mi viene da questo artista, che è pungolo costante e che mi induce a non essere mai distratto dalla frenesia di ogni giorno, per dedicare tempo alla creatività ed alla ricerca fotografica. L’immagine lo rappresenta mentre si china a raccogliere, sulla spiaggia di Trentova ad Agropoli, una piccola conchiglia rimasta prigioniera fra scogli e posidonie. Vibra la sua immagine così come vibrano e si scuotono le altre foto di questo lavoro. Fremiti, vibrazioni, fruscii, uno studio sul mosso che mi accompagna da qualche anno. E’ il pulsare prepotente della vita. L’aspetto sensuale del movimento che viene esaltato da tessuti che fluttuano nell’aria mescolandosi con suoni e colori. Un tentativo di esplorare un mondo che sfugge agli sguardi distratti e veloci di ogni giorno, per cogliere il ritmo della vita e dei sensi, aiutato dalla macchina fotografica che è la mia seconda compagna di vita. Se questo mio lavoro viene alla luce è anche merito del prof. Alfonso Di Muro che ha voluto accompagnare le mie immagini con alcune composizioni poetiche che trovo bellissime e che in certi versi sembrano cogliere perfettamente lo spirito che ha guidato i miei scatti. Un grazie particolare va a Gaetano Paraggio, con il quale esiste un patto di tacita intesa e di conoscenza assoluta del gusto di ognuno , che ci permette , pur in un contraddittorio continuo e costruttivo, di realizzare cose fotografiche che hanno sicuramente almeno un pregio: sono fatte con il cuore.
Pio Peruzzini
Bellizzi, aprile 2015



“Danzar, vibrar, squassare il tirso bacchico.”
Euripide, Baccanti

Già nella preistoria, sulle pareti delle grotte del neolitico, laddove non si rappresentassero scene di caccia, comparvero le prime forme di evocazione di corpi umani che, generalmente associate in circolo, lasciavano pensare a forme primordiali di danza rivolte ai culti astrali, di fertilità o funebri. Con lo scorrere lento e inesorabile della lunga notte dei tempi che precede la storia, queste ataviche forme di unione corporativa si rivolgevano via via al corteggiamento, alla protezione del fuoco, all’esaltazione della guerra.
Da numerose figurazioni funerarie etrusche, tra IV e V secolo a.C. di cui l’Italia è ricca, si assiste a raffigurazioni più esplicite sul piano formale del concetto di danza: sembrano comparire danzatori e danzatrici professionali, accompagnati spesso da suonatori di lira e flauto doppio; talvolta in queste pitture tombali anche i parenti del defunto sembrano essere contagiati dai fremiti della danza. Documenta questa fase la splendida Tomba dei Giocolieri, della seconda metà del VI secolo a.C, a Tarquinia, o la contemporanea Tomba delle Leonesse, dove due eleganti figure, una maschile e l’altra femminile, incedono a un armonico passo di danza, condito dalla presenza della brocca vinaria, ingrediente fondamentale di queste danze orgiastiche antiche.
Come la storia ci ha già ampiamente insegnato, il popolo che diventa per primo consapevole dei riti e dei propri significati, è quello greco. Platone nelle Leggi e nella Repubblica, ritiene che la danza nasca dal desiderio innato nell’uomo, soprattutto del giovane, di muoversi e di associarsi, su una base istintiva che lo assimila agli animali, ma da cui ne diverge per l’ordinato grado di consapevolezza. Lo stesso filosofo, nato e morto ad Atene, sosteneva che esistessero danze buone e danze cattive. Se consideriamo i greci maestri di tutto ciò che sappiamo, allora dobbiamo considerarli anche i nostri maestri sul tema della danza, anche se, a dire il vero, essi ebbero i cretesi a loro volta come maestri, i quali insegnarono ai greci, tra le altre, la Pirrica, una danza di guerra subito adottata dagli spartani per prepararsi psicologicamente e fisicamente alla guerra. Altre danze di guerra furono la Xiphismòs, la danza con le spade o i bastoni - di cui abbiamo oggi memoria nella ‘Ndrezzata di Ischia e la Thermastrìs, conosciuta anche come danza dei movimenti convulsi.
Non si può non ricordare, a questo proposito, come proprio in Grecia ebbero sviluppo danze con al centro la figura femminile. Mi riferisco alle danze bacchiche dei culti in onore di Dionisio aventi come protagonisti le menadi (dette anche baccanti o tiadi), danzatrici invasate dall’estasi dell’ebbrezza sacra al dio. La loro danza, fatta di rapimento e istintività si tradusse ben presto in passi cadenzati e ben codificati, tanto che la gestualità delle mani divenne espressiva dei moti e dello stato dell’animo della danzatrice invasata. Di tutto ciò l’arte ci offre un’ampia documentazione iconografica nella numerosa produzione vascolare greca ma anche romana, dove il tema della danza ricorre di frequente, spesso associato al tema della seduzione erotica e della fertilità in generale.
Altro riferimento iconografico può ricercarsi a conforto nella celeberrima Menade danzante di Skopas del IV secolo a.C, oggi conservata a Dresda, o nella versione di Callimaco del 406 a.C, oggi ai Musei Capitolini a Roma, nella quale la danzatrice appare vestita da un ampio mantello mosso dall’impeto stesso della danza e da una tunica che lascia trasparire entrambi i seni mossi al ritmo frenetico della melodia: in una mano impugna un lungo coltello col quale ha appena sgozzato il capretto sacrificale tenuto stretto nell’altra mano, il cosiddetto sparagmòs.
Bisognerà aspettare il genio moderno di Nietzsche che nella Nascita della tragedia, distinguerà le danze greche in apollinee e dionisiache. Le prime sono sottoposte a riti precisi, codificate in regole musicali e da movenze, ad alto contenuto etico e morale e in genere sono di origine dorica; le seconde si riferiscono a culti orgiastici, di origine asiatica, spesso inducenti all’ebbrezza ed esaltanti l’eros come forma aggregativa naturale, spesso veicolate dall’uso di piante allucinogene o del vino.
Infinita sarebbe la serie di danze praticate nel mondo greco, ma per chiudere questa rassegna ne ricordiamo ancora qualche altra, oltre le già citate: la Podismos e la Polemikè, due danze di guerra che ricordavano la prima la ritirata e l’inseguimento del nemico, il rumore delle lance e degli scudi la seconda. O ancora la Kormastikè, nella quale due file di guerrieri danzavano fronteggiandosi e la Cheironomia, dove i ballerini facevano movimenti ritmici di piedi e mani scanditi da misure di tipo matematico: tale danza era seguitissima dai discepoli di Pitagora.
I romani ebbero un atteggiamento più distaccato nei confronti della danza, un po’ come verso l’arte in generale, almeno inizialmente. Non mancarono però gli apprezzamenti: Plutarco elogia la grazia dei sacerdoti di Marte, che in onore del dio lo celebravano nella danza cosiddetta Imbica; o come in Luciano di Samosata, il quale si rese conto che la danza nasceva da un istinto di tipo amoroso, a imitazione delle processioni astrali e dell’armonia cosmica e che essa fosse sicuramente un dono divino, mediante il quale i danzatori comunicavano le loro passioni umane.
Fra le danze maggiormente praticate dai romani vi era il Tripudium, una danza encomiastica di derivazione etrusca che col tempo si trasformò in una danza sacerdotale, legata ai ritmi della lavorazione della terra e alla scadenza della semina e del raccolto.
In seguito i romani apprezzarono anche la Pantomima, di derivazione sempre dal mondo greco. Essa aveva per contenuto il mito, la storia degli dei e degli eroi, secondo rappresentazioni di tipo coreografico. Ma se tutto questo era vero per Roma, in campagna e nelle province dell’impero si diffusero danze ed espressioni artistiche legate maggiormente ai riti della terra o alle festività in onore di un dio, come ad esempio i riti dionisiaci. In queste danze rituali in cui il protagonista era la folla, il popolo si liberava dal peso della povertà e dell’indigenza, manifestando attraverso il movimento del corpo, al ritmo curativo degli strumenti di accompagno, il desiderio di vivere, di gioire, la liberazione del proprio eros naturale, giungendo infine a una sorta di purificazione collettiva in grado di ricomporre l’unità interiore fra lo spirito e la carne.
Fu ciò che i romani chiamarono Baccanali, in onore del dio Bacco, il Dioniso dei fratelli maggiori greci. Inizialmente queste danze furono considerate nella loro dimensione cultuale e liturgica e riservate soltanto all’elite dei sacerdoti; ma poi furono estese al popolo, divenendo lascive e sfrenate. L’iconografia ricorrente nella rappresentazione dei Baccanali, ci mostra le baccanti, in particolare, impegnate in una danza sfrenata e senza limiti, con l’abbigliamento in disordine e con la totale perdita di tutti i freni inibitori, con le membra del corpo scomposte e schiena e busti flessi in una spasimante torsione, con le mani che a turno impugnano chi il tirso, chi il tamburello, chi – in maggioranza – la coppa del vino.
Qualcosa di simile avveniva anche durante le danze dei Lupercalia, in onore del dio Pan, protettore del bestiame ovino e caprino, durante le quali i sacerdoti del dio, completamente nudi, correvano per le strade di Roma, danzando e percuotendo la folla armati di un frustino!...
Oltre le danze rituali a Roma si diffusero tantissime danze vere e proprie, tanto che gli stessi interpreti divennero delle celebrità, come le famose saltatrici di Cadice, le Caditanae che appassionarono i romani con le loro danze focose.
Un fenomeno da cui è nata una delle danze più popolari – la pizzica tarantata – è il Tarantismo, generatosi da un miscuglio di credenze popolari la cui origine si perde davvero nella notte dei tempi. Secondo la tradizione popolare, consolidata soprattutto nel sud dell’Italia e nella fattispecie tra il materano, Taranto e il Salento, il Tarantismo sarebbe una sorta di malattia provocata dal morso della tarantola, associabili alla Lycosa tarentula o, secondo altri al Latrodectus guttatus, un piccolo ragno comunque, che nei mesi estivi si manifestava nei campi durante la fienagione o le messi. Il morso di questo ragno provocava uno stato di malessere generale, sudorazione, spasimi cardiaci, fino a uno stato di prostrazione catalettica. È subito naturale pensare che le vittime più frequenti di questi morsi fossero i contadini addetti alla mietitura, in particolare le donne.
Questo fenomeno è attestato fin dal Medioevo tanto che fu inquadrato nell’orbita del cristianesimo grazie alla protezione di San Paolo, il Santu Paulu di Galatina, com’è implorato nella pizzica e nel rituale popolare, perché una tradizione che affonda nei sacri testi vuole che San Paolo sia sopravvissuto al morso di un serpente velenoso durante il naufragio sull’isola di Malta. Il cristianesimo però non riuscì a purificare del tutto il fenomeno, che restava commisto a elementi pagani e immorali: difatti, durante i loro balli, le tarantate spesso esibivano movimenti che mimavano l’atto sessuale, lasciando scoperte le parti intime e talvolta orinando sugli altari e nelle chiese. Ci volle l’intuito e lo studio di uno dei più grandi antropologi del Novecento, Ernesto Di Martino, che riuscì a inquadrare il fenomeno nella sua giusta natura etno-antropologica, con il suo magistrale La terra del rimorso.
Lo studioso napoletano, tra il 1959 e il 1961, accompagnato dal musicologo locale Diego Carpitella, dallo psichiatra Giovanni Jervis e da un fotografo documentarista d’eccezione, Franco Pinna, documentò il fenomeno del tarantismo cogliendolo nella sua giusta interpretazione, in cui fondamentale appariva l’uso terapeutico della musica che da sola riusciva a curare quegli stati di crisi sociale che nulla avevano a che fare con il morso del ragno.
Il morso della tarantola appariva così come il pretesto evocativo e simbolico per risolvere i conflitti psichici, individuali e collettivi, di una società sessista e maschilista, come appariva la cultura dominante dell’Italia contadina e meridionale degli anni Cinquanta, e di cui proprio la donna era designata a vittima espiatoria.
Appare chiaro allora come la danza nata per curare il Tarantismo si sia sin da subito rivelata come l’unica terapia efficace a esorcizzare i conflitti che rimordono nella complessità dell’inconscio. Ed è proprio al suono della musica (violino, organetto e tamburello) che la tarantata comincia a scatenarsi in una danza sfrenata durante la quale sembra evidenziare simboli di possessione che arrivano fino a vere e proprie convulsioni. Più il ritmo della musica incalzava più l’effetto sulla morsicata sarebbe stato lenitivo e curativo, insomma una sorta di etnomedicina capace di alleggerire le oppressioni della vita e le frustrazioni di un quotidiano talvolta ostile e di liberare le energie positive, indirizzandole verso una superiore ricomposizione dello spirito con il corpo.
La pizzica oggi è eseguita da un piccolo insieme di strumenti, oltre a quelli già citati, si aggiungono la chitarra e la fisarmonica; ma il fenomeno, oggi ascritto all’interno degli eventi di musica folck, vede anche vere e proprie orchestre, come quella Nazionale della Taranta, fondata dall’etnomusicologo Ambrogio Sparagna. Si è soliti distinguere la pizzica in tre tipologie di danza: la pizzica tarantata, la più conosciuta, quella più collegata al mito del Tarantismo e al culto di San Paolo; la pizzica pizzica, che si balla la notte di San Rocco nel Salento, ed evoca le forme del duello rusticano, una sorta di danza dei coltelli o di regolamento di conti fra contadini; e in ultimo la pizzica de core, in genere eseguita da un uomo e una donna, ma anche da due donne, in cui si evoca e si mima l’atto del congiungimento.
La danza, come si sarà capito, è il tema che ha molto suggestionato questo ennesimo lavoro di Pio Peruzzini, interessato all’argomento in tutte le sue dimensioni: etnica. musicale, coreutica, antropologica, mitologica, estetica, fotografica… Un vero e proprio studio sul movimento, non solo delle danzatrici come apparirebbe del tutto naturale, ma sull’essenza proprio del movimento e delle sue conseguenze nella contiguità dello spazio circostante.
Tecnicamente si tratta di mossi che creano un curioso quanto piacevole effetto di sfocature delle immagini e dei soggetti ritratti, in ragione dei loro stessi movimenti, movimenti che – essendo quelli di ballerine – provocano delle vere e proprie scie luminose di grande riflesso estetico e dal forte spessore espressivo. Non a caso si tratta di un effetto ricercato il cui fine è proprio la ricerca creativa legata alle immagini che ci circondano, ed è l’esatto contrario dell’altra tecnica utilizzata in fotografia, il panning, per riprendere i soggetti in movimento nello spazio, in cui l’estensione dei soggetti appare in parte nitida ma lo sfondo è mosso.
Le ballerine di Peruzzini appaiono, così, la soluzione formale al problema estetico del movimento, poiché il moto secondo l’autore degli scatti altro non è che un corpo collocato in uno spazio che è attraversato in un determinato periodo di tempo. Non a caso l’autore è riuscito a cogliere i passi e la gestualità delle sue ballerine come forme aperte che fiammeggiano nello spazio, modellando i loro movimenti a un ritmo che è quello della musica, visualizzando a noi tutti la durata nel tempo dello svolgersi stesso della danza.
Si tratti di ballerine che eseguano pizziche o tarantelle, o danzatrici impegnate in quella che la volgarizzazione occidentale ha definito danza del ventre e che più correttamente dovremmo chiamare danza orientale, in ogni caso l’autore attraverso le sue scritture di luce riesce a cogliere come le figure stesse delle danzatrici finiscano con l’esprimere i contenuti propri di una danza – cioè tutti quei rimandi culturali ed etnici di cui sopra – attraverso il movimento che agisce in loro, in relazione allo spazio che ne risulta modificato. Tra le sensazioni prevalenti che emergono da queste fotografie, sicuramente la sensualità è uno dei dati che maggiormente punge la nostra curiosità di osservatori: come non rimanere coinvolti ed emotivamente attratti dai gesti di danza e dalle movenze di queste ballerine che sembrano inconsapevolmente perpetuare quei lontani miti e quegli arcani culti?
Così Peruzzini riesce a fermare sulla carta la sua impressione del movimento – la mia piccola sensazione – avrebbe detto Cézanne, e il modellarsi cangiante delle forme corporee. L’effetto finale di queste foto rimanda proprio ad alcune opere del grande maestro dell’impressionismo, con quelle figure in cui erano ritratti soltanto gli elementi essenziali della struttura volumetrica, e che qui sono perfino compiute attraverso la resa essenziale del movimento.
Insomma si tratta di foto che esprimono una concezione lirica delle forme che sono cadute davanti all’obiettivo di Peruzzini, interpretate e sentite attraverso l’infinito manifestarsi del moto assoluto del soggetto e la relazione con l’ambiente, che è poi il succo della vita stessa che ininterrottamente tentiamo di afferrare nel continuo e incessante succedersi degli eventi.

Alfonso Di Muro




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